A tu per tu con Sandro Luporini
Sandro Luporini, classe 1930, colpisce per l’intelligenza sottile che traspare da ogni suo sguardo, da ogni sua parola; e per la simpatia al tempo stesso elegante e informale. Al Teatro del Giglio, Luporini porta in scena la sua ultima creazione, Lo Stallo.
Ci troviamo al Teatro del Giglio, dove il prossimo 19 aprile debutterà con il suo nuovo spettacolo. Il Giglio è un teatro a forte vocazione lirica. Che rapporto ha con questo genere di spettacolo?
«Se si tratta del dualismo tra Verdi e Puccini, io sono pucciniano. Non per competenza. Per nascita. Non è certo sufficiente vivere a due passi da Torre del Lago Puccini, però, per capire qualcosa di lirica. Quando mi sono trovato ad assistere a qualche opera, io che nelle arti ho una tendenza assai realista, sopra ogni cosa sono stato colpito dal fatto che tutto mi pareva finto. Assolutamente finto. Ma non so per quale miracolo del linguaggio, il sentimento era vero. E non è cosa da poco.»
Veniamo al suo spettacolo. Lo stallo è una condizione drammatica nel gioco degli scacchi: il RE, comunque si muova, muore. Per l’esistenza umana, trovarsi “in stallo” significa aver finito di scegliere, fermarsi o morire. Non c’è quindi più possibilità di riscatto, nessuna luce in fondo al tunnel?
«Secondo me, in qualsiasi situazione ci si trovi, anche la più difficoltosa, desistere dalla lotta è un atto di viltà. Bisogna trovare in noi una fede feroce, qualcosa in cui credere, per cui combattere. Perché anche quando sembra che non ci sia alcuna via di scampo, alla fine a vincere sono sempre l’urgenza e la sacralità della vita. Quasi con queste parole termina Lo Stallo.»
Nel Teatro Canzone, che lei ha creato con Giorgio Gaber, la prosa era “d’evocazione”: Gaber faceva vivere, nell’immaginario dello spettatore, situazioni, personaggi e storie proprio come se accadessero in quel preciso momento, senza l’appoggio di oggetti di scena o personaggi. Cosa rivive ne Lo Stallo?
«Quando non ci sono né oggetti né altri attori con cui disquisire, la prosa è quasi per forza di evocazione. Questa volta spero che il pubblico riviva questo sentimento di rinascita di cui ho parlato poco sopra.»
Una parte importante della sua vita artistica e anche personale è stata condivisa con Giorgio Gaber. Cosa le manca di più di quel rapporto?
²Ovviamente, dopo più di trent’anni di vita in comune, la cosa che più manca è il rapporto affettivo. Mi mancano moltissimo anche le nostre lunghe e infaticabili conversazioni, in cui, partendo da punti di vista diversi, abbiamo sempre cercato di convergere, fino a una cosa che addirittura mi sembra buffa: alla fine non sapevamo più se una cosa l’avesse detta lui o io. Quando è così, è facile fare uno spettacolo.»
Si fa molto parlare oggi della situazione dei giovani, dei loro problemi, dell’impossibilità di trovare un lavoro, del loro andare all’estero per crearsi una vita professionale accettabile… Anche le nuove generazioni, in qualche modo, sono “in stallo”. Questa tematica così bruciante e attuale si trova nel suo spettacolo?
«Lo spettacolo parla della vita in generale, e non specificamente di questo. Mentre dagli anni ‘60 agli anni ‘80 Gaber e io eravamo in stretto contatto con il mondo giovanile, devo ammettere che, personalmente, i giovani adesso li conosco poco. Ci ho una certa età. Ma non è una buona scusa. Sarebbe assai meglio capire qualcosa su questo nuovo mondo, caratterizzato da una forte precarietà del lavoro e dalla cosiddetta rivoluzione digitale.»